5 domande a Maria Borio

CARAVAGGIO martedì 14 apr 2020

5 domande a Maria Borio

a cura di Alessandro Bottelli

 

 

1. Sente qualche particolare affinità nei confronti del mondo vegetale?

La natura è per me una parte fondamentale nella percezione che ho del tempo, del divenire biologico, ma anche del senso dei rapporti. Il mondo vegetale mi è sempre apparso in una condizione di fragilità: così come si può curare un fiore si può anche strapparlo. Ci sono tante rappresentazioni letterarie dove foreste maledette invadono gli spazi abitati. Le foto satellitari dell’Amazzonia o i boschi dell’Australia che bruciano, però, ci fanno vedere quanto possiamo essere “forti”. Un fiore non può dare uno schiaffo né fare una carezza, ma può insegnare l’essenza della civiltà, che viene dal saper comprendere le relazioni, così come la legge non è un esercizio di dominio ma un’educazione al rispetto delle relazioni.

 

2. Quando scorge una situazione di disagio o di dolore nei fiori che ha quotidianamente sotto gli occhi, come reagisce?

Non so quanto sia facile avvertire una situazione di disagio o dolore nei fiori. Vero è che la cultura occidentale non ci ha educati a considerare il mondo vegetale capace di disagio o dolore. Ma forse non sarebbe nemmeno corretto parlare di dolore. Secondo me, le differenze tra piante e uomini devono essere mantenute, sarebbe un’ingenuità credere a un eden in cui tutte le creature hanno la stessa sostanza: per quanto in letteratura tutto sia possibile e i fiori parlanti diventano amici del cuore, oracoli, spiriti guida. Però, nella vita reale, dobbiamo imparare a capire quando nella natura un equilibrio non c’è più o è in pericolo. Questo, secondo me, è un dovere etico.

 

3. La sofferenza di una pianta o di un fiore può essere meno degna di cure rispetto a quella che prova, ad esempio, un animale o un umano?

No. La dignità della cura vale per ogni cosa, animata o inanimata, del pianeta: dal virus che attacca l’uomo alla foresta che brucia al permafrost che si rompe e affoga nell’oceano.

 

4. Quali attenzioni dispensa alle sue piante predilette? E loro, in che modo la ricambiano?

Ricordo che mentre scrivevo la tesi di laurea era inverno, avevo portato tutte le piante grasse del terrazzo nel mio studio e le avevo messe sopra i davanzali. Le annaffiavo ogni giorno con pochissima acqua, come un rituale; davvero poca, quasi con il contagocce. Non so che cosa sia successo, ma a un certo punto hanno incominciato a crescere, i rami pendevano verso il basso, e hanno iniziato a cambiare colore: la mattina erano verdi, la sera tendevano ad avere sfumature viola leggerissime. E crescevano, crescevano, come tanti capelli che alla fine hanno coperto lo spazio davanti ai termosifoni e hanno toccato il pavimento. Ecco, quelle piante, quando ho finito la tesi, erano l’unica presenza che insieme a me era davvero cambiata in quella stanza. In un certo senso eravamo cambiate insieme.

 

5. Personalmente, cosa fa per alimentare e rinvigorire la rara pianta della poesia? Perché il suo profumo si espanda e duri il più a lungo possibile, usa “ritrovati” già in commercio o si affida invece a metodi di sua invenzione?

La poesia non è una rara pianta, la poesia fa parte della nostra vita, la letteratura fa parte della nostra vita: è una cosa molto più normale di quanto si creda, non esprime nulla di eccezionale a tal punto da dover stare solo dentro a una torre d’avorio. Certo, è diversa rispetto alla tecnica e a tante cose che siamo portati a fare nella quotidianità, ma penso che bisogna smettere di vederla come una dimensione rara. Per me la poesia è un bene comune e proprio per questo non bisogna accontentarci, bisogna chiederle di più, perché ci faccia vedere le cose in profondità, ci faccia riflettere, pensare. Chi scrive deve chiedersi sempre, secondo me, come possa dare quel di più.

 

 

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