5 domande a Laura Pariani
Non c’è una qualità particolare che mi guida nella scelta di un fiore: a volte è il colore insolito, come nella Calathea crocata (mi piacciono le tinte decise); a volte è la forma (come per la calla) oppure il profumo (per esempio, quello del giglio). Molto spesso mi lascio incantare dalla semplicità, come nei piccoli fiori di bosco: la Pulsatilla pratensis, la Campanula scheuchzeri.
Restano indimenticabili per me le fioriture di grandi estensioni: i campi di lavanda sull’isola di Hvar, le nuvole azzurre dei viali di Jacaranda fioriti a Buenos Aires.
Come al solito la nostra cultura vuole comporre il mondo in una totalità piena di senso; da qui nasce il tanto declamato “linguaggio dei fiori”: la rosa gialla = gelosia; il giglio = purezza; la viola = modestia…
Io cerco di guardare i fiori in un altro modo, guidata forse in questo dall’esperienza di certi giardini giapponesi che si appagano dell’indefinibile dettaglio isolato e si limitano a aprire una sottile fessura da cui guardare un minimo frammento di mondo, forse un unico fiore. Ecco, mi piace pensare che ogni fiore ha per me l’effimera lievità di un sorriso che la vita mi rivolge.
Da piccola, leggendo Dumas ho sognato il tulipano nero. Un mio amico artista, Sergio Cerini, mi ha regalato emozioni con una scultura di rose nere.
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Eliminare i clichés. Quando se ne abusa, le parole appassiscono. Ma chi ha un orecchio fine sente quando nel corpo delle parole il cuore ha cessato di battere.
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